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aprile 1, 2024

Cascina Bosco: trovare un equilibrio tra obiettivi ambientali, produzione agricola e  benessere delle persone

Pubblicato su Pressenza il 24.02.24 

Roberto è con Ilena il proprietario ma soprattutto l’ideatore di Cascina Bosco a Nicorvo, in provincia di Pavia. “E’ la nostra casa e la nostra terra che coltiviamo con rispetto e devozione, senza avvelenarla, senza consumarla” come recita il loro bellissimo sito www.cascinaboscofornasara.it

Roberto, come nasce questa idea?

La storia di Cascina Bosco inizia con la passione mia e di Ilena, fondatori e ideatori. La filosofia alla base di questo progetto è quella di considerare la propria casa e la propria terra non solo come un semplice luogo di residenza e lavoro, ma come qualcosa di prezioso da coltivare con rispetto e devozione.

L’idea di Cascina Bosco nasce quindi dall’amore per la natura e dalla consapevolezza dell’importanza di preservare l’ambiente circostante. Abbiamo  sviluppato questa visione attraverso esperienze personali, studi e una profonda riflessione sui principi di sostenibilità e responsabilità ambientale.

Io con la mia laurea in Scienze Motorie, ho iniziato a lavorare nell’azienda agricola tradizionale di mio padre, immerso nelle sfide quotidiane dei campi. Tuttavia, la consapevolezza dell’impatto ambientale delle pratiche agricole convenzionali ha risuonato profondamente in me e mi ha portato ad informarmi su metodi più sostenibili di coltivazione e a sperimentare l’agricoltura biologica applicata alla coltivazione del riso.

Dall’altra parte Ilena, con il suo background in Antropologia Culturale ed Etnologia, ha trascorso un periodo di ricerca tra gli indigeni tzotzil del Chiapas, sperimentando la connessione profonda tra gli esseri umani e la terra che li sostiene.

La decisione di tornare alla cascina dei suoi nonni e costruire una famiglia è stata un’epifania, un momento in cui abbiamo capito che il nostro vero scopo era quello di proteggere e preservare la terra per le generazioni future.

Siamo tornati a lavorare in campagna con umiltà e passione. Sebbene le nostre lauree in Scienze Motorie e Antropologia Culturale non fossero strettamente legate all’agricoltura, abbiamo coltivato la nostra conoscenza attraverso un’esperienza pratica e l’incoraggiamento dei nostri colleghi agricoltori.

Dedicandoci a corsi, imparando dai successi e dagli errori, abbiamo affinato le nostre competenze e acquisito una comprensione profonda del lavoro della terra. Ogni giorno, ci avventuriamo nei campi con un desiderio insaziabile di imparare e migliorare, consapevoli che l’arte della coltivazione è un processo continuo di scoperta e connessione con la natura.

Con i nostri figli, Cloe e Noah, come testimoni del nostro impegno, ci dedichiamo con passione alla coltivazione biologica, consapevoli che ogni gesto, ogni pianta, è un atto d’amore per la nostra terra e per il futuro che vogliamo costruire.

Uno degli obiettivi chiave di Cascina Bosco è quello di adottare pratiche di agricoltura rigenerativa e di promuovere la riforestazione. In un territorio precedentemente dedito alla monocultura di tipo agroindustriale, ci impegnamo attivamente a ricreare biodiversità e a ripristinare gli ecosistemi locali. Questo include l’adozione di tecniche agricole che favoriscono la rigenerazione del suolo, la conservazione dell’acqua e la promozione della salute delle piante senza l’uso di pesticidi nocivi.

Inoltre, Cascina Bosco si impegna nella riforestazione delle aree circostanti, piantando alberi nativi e contribuendo così alla creazione di corridoi ecologici e alla promozione della biodiversità locale.

In sintesi, Cascina Bosco non solo si impegna a coltivare la terra con rispetto e devozione, ma anche a promuovere l’agricoltura rigenerativa e la riforestazione come parte integrante del suo progetto, con l’obiettivo di ricreare biodiversità in un territorio precedentemente dominato dalla monocultura agroindustriale.

Voi non siete una piccola azienda, ma un complesso di attività agricole biologiche, etiche, sostenibili. Vuoi spiegare questi concetti e la loro applicazione pratica?

La nostra azienda produce principalmente riso Carnaroli, riso Rosa Marchetti, miglio, piselli e fagioli seguendo i principi della policoltura, dell’agricoltura rigenerativa e dell’agroecologia, metodi che vanno oltre il biologico.

Si tratta di tecniche agronomiche che si basano sulla coltivazione di antiche varietà di cereali e legumi che vengono seminati in rotazione tra loro e in consociazione ad erbe spontanee, siepi ed alberi. Non utilizziamo prodotti chimici di sintesi né concimi organici, ma lavoriamo in sinergia con la natura, promuovendo i meccanismi di autofertilità del suolo, facendo dell’agricoltura un’attività sostenibile, a tutela degli agro-ecosistemi.

Il nostro progetto di agricoltura biologica si basa sulla sinergia tra natura e coltura e l’obiettivo ultimo di ogni nostro sforzo è quello di ricreare un habitat distrutto da decenni di monocoltura, coltivazione intensiva e prodotti chimici di sintesi.

Non si tratta solo di coltivare senza utilizzare prodotti chimici di sintesi, ma di cambiare il modo di intendere l’agricoltura passando da una mentalità “estrattiva”, di sfruttamento delle risorse, ad una di rispetto e conservazione di tutto ciò che vive e cresce sulla Terra.

Teniamo i terreni sempre coperti da vegetazione, evitiamo le arature, variamo le colture, lasciamo le rive inerbite.

Cascina Bosco si distingue per il suo impegno nell’adottare un approccio all’agricoltura che integra i principi dell’agricoltura biologica rigenerativa, dell’etica e della sostenibilità.

Attraverso l’adozione di pratiche agricole come la rotazione delle colture, erbai e semine consociate, Cascina Bosco protegge la fertilità del suolo e la salute delle piante, contribuendo al miglioramento degli ecosistemi locali e alla promozione della biodiversità. Inoltre, l’azienda si impegna a promuovere il benessere delle comunità locali, offrendo un prezzo di comunità per chi acquista direttamente in azienda o presso la rivendita in paese. Questo non solo rende i loro prodotti accessibili a tutti, ma contribuisce anche alla valorizzazione della produzione agricola locale e all’instaurarsi di un legame più stretto tra l’azienda e la comunità.

Infine, attraverso la produzione di alimenti salubri e ricchi di nutrienti, Cascina Bosco offre alla propria comunità l’opportunità di accedere a cibo di alta qualità. Questo non solo promuove uno stile di vita sano, ma contribuisce anche alla valorizzazione della produzione agricola locale e alla riduzione dell’impatto ambientale associato alla catena di approvvigionamento alimentare.

Come queste attività sono diventate sostenibili anche economicamente? Cioé come si può vivere coltivando la terra con questa visione etica?

La sostenibilità economica di Cascina Bosco è fondamentale per garantire la continuità delle sue attività agricole in linea con la visione etica dell’azienda. Questo equilibrio tra sostenibilità economica, ambientale e sociale è cruciale per il successo a lungo termine dell’azienda.

Per quanto riguarda la sostenibilità economica, Cascina Bosco adotta diverse strategie:

  1. Diversificazione delle entrate: Oltre alla produzione agricola, l’azienda offre servizi complementari come agriturismo, educazione ambientale o vendita di prodotti correlati. Questa diversificazione delle entrate contribuisce a ridurre la dipendenza dai profitti agricoli diretti e a garantire una maggiore stabilità finanziaria.
  2. Ottimizzazione delle risorse: Cascina Bosco si impegna a utilizzare pratiche agricole che minimizzano i costi e massimizzano l’efficienza. Ciò include l’adozione di tecniche come i sovesci, la semina su sodo e la minima lavorazione del terreno, che riducono la necessità di input costosi come fertilizzanti e carburante per i macchinari agricoli.
  3. Vendita diretta e prezzi equi: L’azienda adotta modelli di vendita diretti, come la vendita diretta in azienda o presso rivendite locali, e offre prezzi equi per i consumatori che acquistano direttamente da loro. Questo elimina gli intermediari e consente a Cascina Bosco di mantenere margini di profitto più elevati, garantendo al contempo prezzi accessibili per i clienti.
  4. Coinvolgimento della comunità: L’azienda promuove l’interesse e il sostegno della comunità locale attraverso iniziative come giornate a porte aperte, visite guidate, corsi, eventi dedicati alla collettività

In questi giorni le proteste degli agricoltori sembrano essere antiecologiche e su tematiche che non colgono l’aspetto centrale di come produrre cibo per tutti, che dovrebbe essere lo scopo dell’agricoltura: voi come avete osservato e vissuto queste proteste?

Le proteste degli agricoltori in Europa hanno messo in evidenza una crisi strutturale nel settore primario e nell’intera filiera agroalimentare dell’Unione Europea. Tuttavia, attribuire la colpa al Green Deal e al Farm to Fork dell’UE è sbagliato.

In realtà, il problema principale è l’insostenibilità economica della produzione alimentare in Europa, con gli agricoltori costretti a vendere al di sotto dei costi di produzione. Questo rende comprensibili le loro proteste, ma incolpare il Green Deal è miope e pericoloso, specialmente considerando le decisioni controverse delle istituzioni europee, come il ritiro del regolamento Sur sulla riduzione dei pesticidi e il via libera alle Tecniche di evoluzione assistita (TEA).

Le vere cause della crisi agricola risiedono nei modelli di produzione, distribuzione e supporto agli agricoltori. Un numero limitato di grandi gruppi industriali domina il mercato globale delle attrezzature agricole, delle sementi e della commercializzazione di cereali e altri alimenti, influenzando direttamente i prezzi per produttori e consumatori.

Cascina Bosco ha osservato con attenzione le recenti proteste degli agricoltori e riconosce la complessità delle questioni sollevate. Pur condividendo alcune preoccupazioni, come il principio di reciprocità nelle importazioni, l’azienda non concorda sullo smantellamento del Green Deal e critica l’eventuale strumentalizzazione e disinformazione riguardo a queste questioni.

Per quanto riguarda il Green Deal, Cascina Bosco ritiene che sia fondamentale trovare un equilibrio tra gli obiettivi ambientali e quelli legati alla produzione agricola e al benessere dei consumatori. Il vincolo del 4% di incolto non è una richiesta di non coltivare, come viene spesso erroneamente interpretato, ma una misura per la tutela della biodiversità. Infatti, vengono inclusi in questa percentuale elementi caratteristici del paesaggio già presenti nelle aziende agricole, come stagni, boschetti, fasce alberate, siepi, muretti a secco, fossati, canali artificiali, margini dei campi e simili, oltre a terreni a riposo, fasce tampone lungo i corsi d’acqua e fasce inerbite su terreni in pendenza. Questi elementi contribuiscono alla biodiversità e al benessere degli ecosistemi.

Pur non schierandosi dalla parte delle proteste, Cascina Bosco riconosce la validità di alcuni obiettivi condivisibili, ma non supporta l’opposizione ostinata da parte delle aziende alle pratiche agroecologiche necessarie per una transizione del settore. L’azienda ritiene che un dialogo costruttivo e un approccio collaborativo siano fondamentali per affrontare le sfide del settore agricolo e garantire una produzione sostenibile e rispettosa dell’ambiente.

Qual è il ruolo del profitto, della speculazione e delle grandi holding multinazionali in tutta questa faccenda?

Nel contesto delle proteste, è cruciale esaminare il ruolo del profitto e delle grandi holding multinazionali nel settore agricolo. Le aziende agricole che cercano di massimizzare il profitto, spesso in linea con le dinamiche del settore agroindustriale, portano a sacrificare l’ambiente, la salute e la biodiversità. Allo stesso tempo, le grandi holding multinazionali hanno un interesse significativo nel mantenere le aziende agricole legate a dinamiche che favoriscono la loro redditività, come l’agroindustria e la grande distribuzione

Tuttavia, è importante riconoscere che il Green Deal europeo, pur con i suoi limiti, si propone di stimolare una transizione verso pratiche agricole più sostenibili. Questo potrebbe offrire agli agricoltori diversi vantaggi, tra cui una minore dipendenza da input esterni costosi come concimi e fitofarmaci, un aumento della fertilità del suolo e una maggiore valorizzazione delle produzioni.

Pertanto, mentre le proteste agricole possono sollevare legittime preoccupazioni riguardo al ruolo del profitto e delle grandi holding multinazionali, è fondamentale considerare anche le opportunità offerte dal Green Deal per una trasformazione positiva nel settore agricolo.

L’agricoltura dovrebbe evolversi verso un modello più sostenibile e resiliente, che rispetti l’equilibrio tra le esigenze umane e l’ambiente. Questo significa adottare pratiche agricole che promuovano la salute del suolo, la biodiversità e la conservazione delle risorse naturali, riducendo al contempo l’uso di input chimici e il consumo di energia. Inoltre, l’agricoltura del futuro dovrebbe essere inclusiva ed equa, garantendo la sicurezza alimentare e il sostentamento per gli agricoltori, oltre a fornire cibo sano e accessibile per tutti. La ricerca e l’innovazione svolgeranno un ruolo chiave nel migliorare le pratiche agricole e sviluppare nuove tecnologie per affrontare sfide come il cambiamento climatico e la scarsità di risorse. Inoltre, l’agricoltura dovrebbe integrarsi maggiormente con i sistemi naturali e favorire la rigenerazione degli ecosistemi, contribuendo così a mitigare gli effetti negativi sull’ambiente e ad adattarsi alle condizioni climatiche mutevoli. In definitiva, l’agricoltura del futuro dovrebbe essere un motore per la sostenibilità, la salute e la prosperità per le generazioni presenti e future.

Cascina Bosco, oltre ad essere un’azienda agricola, ha anche un ruolo educativo e di ricerca?

Sì, Cascina Bosco svolge un ruolo significativo nell’ambito dell’istruzione e della ricerca, collaborando attivamente con diverse università e enti di ricerca. Nel corso degli anni abbiamo stretto partnership con istituzioni accademiche come l’Università di Pavia e l’Università di Torino, nonché con enti di ricerca come CREA e ERSAF. Quest’anno stiamo espandendo ulteriormente le nostre collaborazioni, avviando sperimentazioni di consociazioni con l’Università di Firenze e la Rete Semi Rurali, e una sperimentazione con l’Università di Milano e EIT Food.

Inoltre, in collaborazione con l’Associazione Polycolturae, ospitiamo una dottoranda che si dedica alla ricerca sui servizi ecosistemici dell’azienda. Organizziamo anche regolarmente giornate aperte alla comunità locale, durante le quali affrontiamo tematiche agricole e ambientali e promuoviamo azioni concrete come piantumazioni collettive di alberi e arbusti. L’obiettivo di queste iniziative è sensibilizzare la comunità sull’importanza della sostenibilità ambientale e alimentare e promuovere la partecipazione attiva nella tutela dell’ambiente.

febbraio 9, 2024

Vincenzo Arte: cerchiamo una scuola più a misura di bambini e ragazzi, centrata su di loro

Pubblicato su Pressenza il 29.01.24 – Olivier Turquet

Vincenzo Arte è insegnante e autore del libro Crescere senza Voti e uno dei coordinatori del Movimento Scuole Senza Voto che è stato messo in moto all’interno del progetto del Polo Europeo della conoscenza.

In una scuola che sembra tendere alla competitività, con un Ministero dell’Istruzione che diventa anche del merito il vostro modo di vedere le cose sembra controcorrente, ce lo vuoi spiegare?

Sì, non è la prima volta che mi sento un salmone, mi capita spesso di andare controcorrente, credo perché cerco di guardare la vita senza i paraocchi che la società, le tradizioni, i modelli culturali o le nostre stesse autodifese ci vorrebbero mettere. Non condivido l’impostazione selettiva che alcune scuole e alcuni docenti danno al proprio lavoro.

Il punto è che siamo in un mondo basato sulla competizione e sull’individualismo e invece mi piacerebbe un mondo cooperativo e solidale, in cui chi ha di più aiuti chi è più in difficoltà. E rifiuto l’idea di scuola come luogo di sacrificio e sofferenza.

Ritengo che almeno nella scuola dell’obbligo, se non fino ai 18 anni, i ragazzi debbano poter dare quello che possono senza essere giudicati giorno per giorno, senza essere trattati come dei numeri. Devono partecipare alle attività scolastiche collaborando tra loro, impegnandosi nello studio, apprendendo in un clima il più possibile sereno e libero. Se riuscissimo a far crescere una generazione di donne e uomini rispettosi ma liberi, colti ma creativi, forse loro potrebbero migliorare questo mondo malaticcio che ereditano da noi.

Otto anni fa, insieme a delle care colleghe abbiamo iniziato ad applicare in un liceo metodologie didattiche che tanti ritenevano potessero essere valide solo per la scuola primaria o per la media inferiore. Il successo è stato tale da far diventare il nostro un modello che oggi ispira istituti di ogni tipo.

Quali sono i principi fondanti che uniscono le varie realtà che sperimentano questo metodo?

Cerchiamo una scuola più a misura di bambini e ragazzi, centrata su di loro. Sono in fase evolutiva, stanno crescendo, si stanno formando nel senso che le loro persone stanno prendendo  forma. Per essere ben guidati e accompagnati in questo processo c’è bisogno che la scuola  li accolga e si con-formi a loro e non viceversa. Ognuno di noi lo fa a modo suo ma su una cosa siamo più o meno tutti d’accordo: durante un percorso, la valutazione deve essere formativa e i voti non lo sono. Quindi, semplicemente, non li usiamo.

Secondo voi quindi i voti a scuola non sono utili?

L’apprendimento ha ben poco a che fare col voto. Anzi. Normalmente il voto crea la cornice per un apprendimento inefficace, nel senso di poco duraturo, poco pervasivo, poco maturo. La didattica imperniata sul giudizio e sul voto incentiva lo studente a considerare primaria non la propria crescita culturale ma l’ottenimento del voto, per cui vengono messe in campo tutte le tecniche adatte allo scopo, inganni, sotterfugi, soprattutto nei compiti scritti, oppure lo studio matto e disperatissimo del giorno prima, che fa ottenere un voto decente ma è troppo spesso accompagnato, entro una settimana, dalla totale rimozione delle nozioni memorizzate.

Il voto, da mezzo per la didattica, diventa”fine”, scopo ultimo delle attività. Il docente è soddisfatto quando ha il registro pieno di voti, l’alunno è realizzato se ha preso il voto a cui puntava. Inoltre i voti sono divisivi, innescano confronti tra ragazzi, creano graduatorie e meccanismi competitivi deleteri per il gruppo classe e non hanno nulla di formativo, non dicono niente sull’andamento della prova, non fanno capire cosa sia stato fatto bene e cosa male, non fanno capire dove e perché si sia sbagliato, non danno suggerimenti per il futuro. Insomma, di ragioni per allontanare il nostro sistema scolastico dal mercimonio dei voti, ce ne sarebbero, anche se volessimo trascurare alcuni eccessi, come quelli del voto brandito come un’arma di ricatto da parte del docente o come quegli atteggiamenti di sudditanza, piaggeria, adulazione, servilismo cui alcuni alunni vengono indotti.

Ma i voti non sono obbligatori per legge?

La normativa parla chiaro: in pagella i voti ci devono essere perché lì il voto rappresenta la parte di valutazione sommativa, conclusiva. Ma durante l’anno, giorno per giorno, a scuola, la valutazione deve essere formativa, per cui nessuna norma può obbligare i docenti ad utilizzare i numeri che, come dicevo prima, nulla hanno di formativo, e infatti nessuna norma lo fa.

Cosa sta facendo concretamente questo coordinamento?

Cominciano a essere tante le scuole che utilizzano la valutazione orientante, educativa, descrittiva, o come la si vuol chiamare, comunque una valutazione senza voti, quindi formativa. Di conseguenza stanno nascendo spontaneamente tanti coordinamenti locali oppure online ma bisognerebbe riuscire a mettersi tutti insieme. È uno degli obiettivi, ci stiamo provando. E poi facciamo formazione per contagiare altri docenti e dirigenti. Per fortuna si stanno creando forti sinergie tra questo mondo di insegnanti di scuola e tanti docenti universitari delle facoltà di pedagogia di tutta Italia che ci supportano e ci assistono nei progetti che realizziamo nelle scuole. Ma siamo agli inizi, non è facile organizzarci, come insegnanti di scuola abbiamo già un grande lavoro che ci occupa molto tempo.

Come questo movimento si relaziona e/o collabora con le altre realtà pedagogiche nonviolente e libertarie?

Come dicevo prima, siamo solo all’inizio di un percorso, però con alcuni siamo già interconnessi: il “Coordinamento scuole senza voto”, nato grazie soprattutto a Ferdinando Ciani della “Pedagogia del gratuito” e Sonia Bacchi; il MCE, fondati sulla pedagogia Freinet ideata per la primaria ma che oggi ha gruppi di lavoro specifici anche per la secondaria di primo e secondo grado; il “Coordinamento per la valutazione educativa” promosso dal professor Corsini di RomaTre. Le realtà in tutta Italia sono numerose, per fortuna, e bisognerebbe intercettarle per farne una mappatura e costitituire una rete finalizzata allo scambio di esperienze e formazione.

Come partecipare, formarsi, restare in contatto?

Per ora io e altri docenti stiamo girando su e giù l’italia per incontri formativi con colleghi e dirigenti, oltre a tenere corsi online. Con il professor Guido Benvenuto della Sapienza e con alcuni dei coordinamenti con cui siamo in contatto stiamo progettando delle attività più strutturate per il prossimo anno scolastico.

febbraio 9, 2024

Antonio Mazzeo: come fa la Leonardo a dire che non è implicata nei teatri di guerra?

Pubblicato su Pressenza il 18.01.24 – Olivier Turquet

(Foto di Leonardo)

L’ospedale Bambin Gesù ha rifiutato una donazione natalizia di Leonardo ritenendola “inopportuna”. La Società ha commentato dicendo “In tutti i teatri di guerra in corso non c’è nessun sistema offensivo di nostra produzione” (Repubblica, 12 Gennaio).

Abbiamo fatto su questo alcune domande a Antonio Mazzeo, giornalista pacifista specializzato in questioni militari ed editorialista di Pressenza.

Antonio, sulla base di cosa Leonardo può fare un’affermazione del genere? E con quale credibilità?

Beh, bisognerebbe chiedere ai manager di Leonardo perché si siano inventati una risposta che non trova alcun fondamento né tra i comunicati stampa emessi in tutti questi anni dalla holding armiera a capitale pubblico, né tra le relazioni ufficiali periodiche delle autorità governative sulle attività di esportazione delle aziende belliche italiane.

Israele è uno dei partner strategici di Leonardo Spa o delle società controllate interamente o parzialmente che hanno sede sociale in paesi terzi (in particolare negli Stati Uniti d’America). Sono stati realizzati negli stabilimenti di Alenia Aermacchi (Leonardo) di Venegono Inferiore (Varese), i caccia-addestratori M-346 “Master” dove si formano i top gun dell’Aeronautica militare israeliana, prima di operare nei cacciabombardieri di IV e V generazione (come i famigerati F-35 che sono stati predisposti per l’uso di armi nucleari tattiche) che stanno sterminando morte e distruzione a Gaza, Libano meridionale e Siria.

Negli stabilimenti AgustaWestland di Leonardo sono stati realizzati gli elicotteri d’addestramento che le forze armate israeliane hanno acquistato un paio di anni fa per “formare” i reparti elicotteristici destinati alle operazioni di guerra. E a bordo dei carri armati che hanno raso al suolo tanti quartieri di Gaza sono stati predisposti sofisticati sistemi di “autoprotezione” realizzati in joint venture dalla controllata USA di Leonardo (DRS) e aziende israeliane leader nel settore bellico.

Questo per quello che riguarda solo il caso di Israele. Ma possiamo dimenticare l’apporto di Leonardo al potenziamento bellico delle forze armate turche? Al regime di Erdogan è stato fornito il know how per realizzare in Turchia gli elicotteri d’attacco “Atak”, la versione nazionale degli Agusta Westland A129 “Mangusta” di Leonardo, costantemente impiegati dalle forze armate di Ankara per bombardare i villaggi kurdi in territorio turco, iracheno e siriano. Ed oltre a questi sistemi di morte, Leonardo SpA, attraverso la controllata Telespazio, ha fornito alla Turchia componenti vitali per la realizzazione del programma aerospaziale militare “Göktürk-1”, basato su un satellite di osservazione della Terra con un sensore ottico ad alta risoluzione, un centro per l’integrazione satellitare e i test (costruito ad Ankara) e un segmento terrestre responsabile del controllo missione, della gestione in orbita, dell’acquisizione e processamento dati. Il satellite “Göktürk-1” è stato lanciato in orbita il 5 dicembre 2016 dallo spazioporto europeo di Kourou, in Guyana francese, con un lanciatore italiano VEGA, sotto il controllo del Centro Spaziale del Fucino di Telespazio.

E’ possibile sapere con una ragionevole approssimazione che parte delle attività di Leonardo è dedicata alla produzione di armamenti o di sistemi direttamente legati alla guerra?

Soprattutto il settore aerospaziale transnazionale si sta caratterizzando per la ricerca, sperimentazione e produzione di sistemi cosiddetti “dual”, che cioè possono operare in qualsiasi momenti in contesti di tipo “civile” o di tipo “militare” o in quell’area grigia rappresentata dalle operazioni di “soccorso” in caso di eventi bellici, pandemie, catastrofi, ecc.

Ciò rende davvero impossibile quantificare le percentuali di produzione a fini bellici di un’azienda che operi in questo settore. Tuttavia ci sono comparti produttivi di Leonardo che continuano a caratterizzarsi per l’esclusiva realizzazione di sistemi d’arma. Penso in particolare agli stabilimenti ex OTO Melara di La Spezia dove si costruiscono cannoni terrestri e navali, carri armati e blindati, spesso in joint venture con il gruppo privato IVECO Defense Systems con quartier generale a Bolzano. C’è poi il settore della cybersecurity i cui prodotti sono destinati alle forze armate e gli apparati sicuritari statali. Nelle guerre cibernetiche Leonardo e le aziende controllate hanno assunto un ruolo chiave in Italia e a livello internazionale.

Le produzioni della compartecipata (il 30% di Leonardo è capitale pubblico) che andamento hanno avuto negli ultimi anni?

Gli ordini di prodotti Leonardo sono cresciuti progressivamente negli ultimi anni (il loro valore era di 11.595.000,000 euro nel 2017, mentre sono stati per 17.226.000.000 euro nel 2022).

Anche in termini di ricavi i bilanci di Leonardo hanno evidenziato una forte crescita: 11.527.000.000 euro nel 2017, 14.713.000.000 euro cinque anni dopo. Nel 2023 fatturati e dividendi sono ulteriormente cresciuti per cui c’è da attendersi un ulteriore salto in avanti di quella che è ormai si è consolidata nella classifica “top ten” delle grandi aziende produttrici di sistemi di guerra.

Ma attenzione, non sono tutte “rose” quello che governi e partiti di maggioranza e opposizione ci fanno credere quando esaltano le capacità produttrici di Leonardo e i suoi benefici per la società e l’economia italiana. I bilanci del gruppo rivelano infatti anche il boom dell’indebitamento della holding, passato da 2.351.000.000 nel 2018 a 3.016.000.000 nel 2022. Come dire cioè, che i benefit vanno ai manager e agli azionisti, mentre il pagamento dei debiti a banche e gruppi finanziari internazionali spetta ai contribuenti italiani.

febbraio 9, 2024

Daniele Gamba, dopo la sospensione della sua sezione di Legambiente: “Siamo stupiti e preoccupati”

Pubblicato su Pressenza il 15.01.24 – Olivier Turquet

(Foto di Legambiente)

Varie volte la locale Redazione di Pressenza si è occupata dello stato dell’ambiente in Piemonte Orientale. Ora apprendiamo che la locale sezione biellese di Legambiente con cui abbiamo collaborato è stata chiusa. Ne parliamo con Daniele Gamba che ne è il coordinatore.

Daniele, cosa è successo?

Siamo al momento “sospesi”. Una sospensione che ci stupisce per merito e metodo. Nel merito: poiché il circolo ha semplicemente esercitato quello che ritiene un banale diritto di opinione, le tesi e i lavori congressuali non possono essere infatti ritenuti lavori secretati. Banalmente nel nostro post su facebook, quello incriminato, illustriamo la posizione e le perplessità tenuta nel congresso su vari temi rimandando anche ad un articolo su Pressenza.

Nel metodo: i rilievi e i provvedimenti circa i comportamenti dei circoli spettano infatti ad un organo denominato Consiglio di Presidenza e, in seconda battuta, all’Assemblea dei Soci (i circoli della regione). Anziché provvedere con urgenza alla costituzione di tale organo si è è scelta l’urgenza della sospensione, usata come ricatto per ottenere la cancellazione di questo post.

Qual è stata la vostra reazione e quella del territorio?

Siamo stupiti del provvedimento, che riteniamo sproporzionato e illegittimo. Ci sembra di essere tornati al centralismo democratico.

Cosa contate di fare ora?

Ovviamente affronteremo l’iter che si prospetta ma riteniamo doveroso fare presente pubblicamente a chi segue i lavori di questa associazione ed ai nostri simpatizzanti i rischi di una linea e una reggenza volta più alla ricerca di alleanze con il mondo delle imprese anziché con la propria base sociale.

Vorrei esprimere la solidarietà di Pressenza e la nostra preoccupazione per una evidente limitazione alla libertà di espressione e di dissenso. Qual è la tua sensazione di fronte al proliferare di queste grosse holding dell’energia e della gestione ambientale?

Siamo preoccupati. Il Circolo di Biella ha più vertenze in corso, ultimamente contro una discarica di amianto in mezzo alle risaie e un termovalirzzatore per rifiuti sopeciali a Cavaglià in procedura di VIA. Quest’ultimo progetto è avanzato da A2A Ambiente Spa.

E’ assai difficile essere credibili nell’opposizione a tale progetto quando Legambiente nazionale firma protocolli d’intesa con A2A per contrastare i “Nimby” o Legambiente regionale organizza ecoforum dando spazio ad A2A su progetti contestati territorialmente. La sospensione del circolo locale è un “regalo” che certamente favorisce A2A nei propri progetti di termocombustione.

dicembre 30, 2023

Claude AnShin Thomas: “Il processo non consiste nel cercare di cambiare il mondo, ma nel rendersi conto che quando io cambio, il mondo cambia”

Pubblicato su Pressenza il 12.11.23 

Quest’articolo è disponibile anche in: IngleseSpagnoloFrancese

Claude AnShin Thomas è un ex veterano del Vietnam diventato monaco buddista che si dedica alla causa della nonviolenza e alla fine di tutte le guerre, sia interne che esterne, che affliggono l’umanità. In questi giorni sta svolgendo conferenze e ritiri in giro per l’Italia.

Puoi parlarci del tuo percorso umano e spirituale?

Il percorso umano e spirituale è trattato in modo più approfondito nella versione italiana del libro “At Hell’s Gate, A Soldiers Journey From War To Peace”. Il titolo in italiano è invece “Una volta ero un soldato”. Il libro è pubblicato in Italia da il Saggiatore.

Una breve sintesi del mio percorso umano e spirituale è che sono cresciuto in una famiglia che abusava di me. I miei genitori si sono separati e hanno divorziato quando ero molto giovane. Sono cresciuto con mio padre. Mi sono arruolato nell’esercito in giovane età, a 17 anni. Mi sono offerto volontario per andare in guerra, in Vietnam,  appena compiuto i  18 anni. Sono stato coinvolto in combattimenti piuttosto pesanti e continui. Sono stato ferito e ho trascorso un periodo in un ospedale militare. Sono stato dimesso dall’ospedale e dall’esercito con una dipendenza da narcotici che mi venivano somministrati per il dolore. Ho vissuto senza fissa dimora per un periodo di circa 2 anni.

Dopo la guerra non ero in grado di mantenere un lavoro per un certo periodo di tempo. Ero incapace di avere qualsiasi tipo di relazione intima. I ricordi della guerra non mi lasciavano in pace e non riuscivo a smettere di usare droghe, compreso l’alcol. Entrai in una clinica per smettere di usarle. Era il 28 maggio 1983. Da quel giorno non ho più fatto uso di sostanze stupefacenti.

Dopo 7 anni di astinenza mi sono ritrovato in un ritiro buddista con altri veterani della guerra del Vietnam. Lì fui introdotto alla pratica della meditazione. La pratica che veniva enfatizzata era che la meditazione e la vita quotidiana non erano due cose distinte. Ciò che mi è stato presentato in quelo ritiro era una pratica spirituale disciplinata che da allora mi ha aiutato a scoprire come le mie più grandi responsabilità, una volta che ne divento consapevole, diventano le mie più grandi risorse.

Qual è la tua missione attuale e la tua priorità?

Informazioni sul lavoro che sta crescendo intorno alle mie attività nel mondo si possono trovare su www.zaltho.org o www.zaltho.de o www.zaltho.it.
In realtà non ho una missione nel senso puro del termine. Quando sono stato ordinato ho preso i voti come  monaco mendicante. Parte di questi voti consiste nell’accettare tutti gli inviti che mi vengono rivolti. Così, facilito i ritiri in cui trasmetto ciò che mi è stato dato: che la meditazione e la vita quotidiana non sono due cose separate. Una pratica seduta impegnata, sostenuta e disciplinata è la base. Per questo motivo, chiedo a tutti coloro che incontro di iniziare una pratica disciplinata sedendosi ogni mattina e ogni sera per un minimo di 5 minuti.

La mia priorità è quella di risvegliare in me le radici della guerra, della violenza e della sofferenza.

Comunicare a tutti coloro che ho il privilegio di incontrare, attraverso conferenze pubbliche o ritiri, che se voglio che il mondo sia diverso, devo vivere in modo diverso. Il processo non consiste nel cercare di cambiare il mondo, ma nel rendersi conto che quando io cambio, il mondo cambia.

In questo momento apparentemente oscuro delle vicende umane, quale messaggio ritiene sia prioritario dare all’umanità?

Se voglio che il mondo sia diverso, devo vivere in modo diverso. Il mondo e io non siamo due cose separate.

“Possiamo solo diventare pace”: È nella comprensione della sofferenza che l’umanità può compiere un progresso radicale?

Non credo che il progresso debba essere radicale. La chiave è comprendere la natura della sofferenza. Questa, la natura della sofferenza, risiede in tutte le nostre idee sulle cose. Ad esempio, molte persone mi diranno che non vogliono soffrire, che vogliono essere felici. Ma nel tentativo di far sì che il mondo si conformi alle nostre idee di felicità, alle nostre idee di sicurezza, alle nostre idee di comodità, in realtà stiamo creando sofferenza.

Thich Nath Han ha sottolineato l’importanza della risoluzione nonviolenta dei conflitti interiori ed esteriori: cosa potrebbe dire oggi di fronte a conflitti terribili come l’attuale conflitto palestinese?

Non ne ho idea.

dicembre 26, 2023

“La resistenza di Alex Saab ci invita a scegliere da che parte stare”. Intervista a Geraldina Colotti

Pubblicato su Pressenza il 25.09.23 

Quest’articolo è disponibile anche in: SpagnoloFrancese

Pressenza ha deciso di essere parte attiva nella campagna per la liberazione di Alex Saab, il diplomatico venezuelano sequestrato dagli Stati Uniti sull’isola di Capo Verde il 12 giugno del 2020, e poi tradotto arbitrariamente a Miami, dove si trova in attesa di processo, nel 2021. In questo contesto, la casa editrice Multimage ha pubblicato il libro Alex Saab, lettere di un sequestrato, a cui abbiamo partecipato con una nostra nota, insieme all’avvocato penalista Davide Steccanella. Il libro è a cura della giornalista e scrittrice Geraldina Colotti, che coordina il capitolo italiano del movimento Free Alex Saab e che abbiamo sentito per questa intervista.

Sappiamo che Alex Saab ha avuto un tumore allo stomaco, come sta ora?

Qualche mese fa, la moglie, l’italiana Camilla Fabri, che può sentirlo telefonicamente per qualche minuto, ha denunciato che il marito, sopravvissuto a un tumore allo stomaco, aveva ripreso a vomitare sangue. Un sintomo allarmante, tanto più in quanto al diplomatico non vengono prestate cure mediche adeguate e che, anzi, la sua situazione sanitaria viene usata dal governo statunitense come ulteriore pressione affinché dichiari il falso, avallando le accuse contro il presidente venezuelano, Nicolas Maduro, e diventi così un altro “testimone della corona”.

Saab ha resistito a numerose torture e privazioni, prima durante la sua arbitraria detenzione nelle carceri di Capo Verde, e poi successivamente, quando è stato nuovamente sequestrato e portato in un carcere di Miami. Alex Saab è un ostaggio e un monito, come lo è Julian Assange. Una situazione per molti versi simile a quella sofferta dai Cinque agenti cubani che sono stati messi in carcere per aver cercato di sventare attentati degli anti-castristi basati a Miami, che avrebbero fatto vittime anche fra i cittadini statunitensi. Alex Saab, come inviato speciale del governo bolivariano, ha messo a disposizione le sue relazioni internazionali per spezzare l’assedio imposto al popolo venezuelano con le misure coercitive unilaterali illegali decise dagli Stati Uniti. Un ruolo che, come pochi sanno, svolse anche Maradona.

 Quali sono le prospettive attuali della sua liberazione?

Subito dopo il secondo sequestro e l’arrivo di Saab a Miami, la difesa ha dimostrato la falsità delle accuse rivolte al diplomatico e sostenute da una poderosa campagna stampa, tesa a screditare la sua immagine e quella del governo bolivariano. E anche della moglie Camilla, contro la quale sono stati usati stereotipi di genere per minarne la credibilità. Sette capi d’imputazione su otto, sono caduti. È rimasta in piedi solo l’accusa di “cospirazione”.

Ben sapendo che ha violato la convenzione di Vienna, sequestrando e torturando un diplomatico, Washington procrastina l’udienza per riconoscere lo statuto di diplomatico di Saab e la relativa immunità che gli è stata violata. L’assurda motivazione è che il governo Usa non “riconosce” il presidente legittimo del Venezuela, Nicolas Maduro, mentre ha “riconosciuto” un “presidente” virtuale che nessuno ha eletto, quel tal Guaidó, risultato alla fine impresentabile anche per i suoi padrini occidentali.

Quello di Alex Saab è evidentemente un caso politico che il governo bolivariano sta cercando di risolvere a livello politico, chiedendo ripetutamente di scambiare la libertà del suo diplomatico con quella di alcuni mercenari nordamericani, arrestati in Venezuela. Ma finora senza esito. Intanto, la “giustizia” Usa si è presa altro tempo per pronunciarsi sul nuovo ricorso della difesa di Saab per il riconoscimento dell’immunità diplomatica. L’anno scorso ha respinto il ricorso praticamente alla vigilia di Natale, per fare un “regalo” alla famiglia, e ai figli piccoli di Alex che chiedono di vedere il padre. Dopo il peggioramento delle condizioni di salute del marito, Camilla Fabri ha chiesto almeno una soluzione umanitaria, ma quale sia l’umanità dell’amministrazione Usa è dimostrata dal fatto che una persona come Leonard Peltier sia detenuto, innocente, da 47 anni.

 Come procede la campagna internazionale e quali sono i prossimi passi?

Nonostante il silenzio dei media e la disinformazione che circonda questo caso, il Movimento Free Alex Saab sta crescendo, e per questo anche la pubblicazione del libro di Alex in italiano è importante per rompere il muro della disinformazione. Se solo lo si conosce, questo caso risulta emblematico del livello di sopraffazione a cui arriva l’imperialismo quando non trova un freno determinato dalla coscienza popolare nei paesi del “nord”.

È nei paesi capitalisti, infatti, che si decide il costo del lavoro, è da lì che s’impone l’ipocrisia di una democrazia (da esportare persino con le armi), basata su una disuguaglianza d’origine, che già Marx evidenziava: perché la nozione astratta di cittadino, che sarebbe uguale davanti alla legge, ignora la differenza di classe. Un sistema che utilizza anche la magistratura per fini politici, il lawfare, in modo sempre più palese, per scavalcare la sua stessa legalità quando questa impone dei vincoli agli interessi dei padroni del mondo.

Cosa si può fare per contrastare l’uso politico e strumentale della magistratura e per ribadire le convenzioni internazionali sui diritti umani, la protezione diplomatica eccetera?

Il 24 di settembre, il Venezuela ha presentato all’Onu la Mappa geopolitica delle sanzioni. Un progetto di studio iniziato cinque anni fa che monitora, a partire dall’Osservatorio venezuelano antibloqueo, l’impatto delle misure coercitive unilaterali illegali sulla vita dei popoli colpiti, sull’economia, sui diritti umani e anche sul complesso delle relazioni internazionali.

I paesi perseguiti da queste misure criminali, illegali perché non decise dall’Onu, ma dall’imperialismo Usa e dai suoi subordinati dell’Unione europea e non solo, e imposte con criterio di extralegalità, sono una trentina nel mondo. In America Latina, in primo luogo c’è Cuba, poi il Venezuela e il Nicaragua.

Intanto, sarebbe importante leggere e diffondere i dati contenuti nella piattaforma dell’Osservatorio e farne materia di lotta politica per collegare quel che accade da noi, in Europa, con quel che accade nel mondo: a partire dai paesi che hanno cercato di mettere in questione l’egemonia Usa a 200 anni dalla Dottrina Monroe, cercando di costruire il proprio destino. L’ipocrisia sulle “sanzioni” smaschera anche la falsa generosità dei paesi imperialisti nei confronti dei “migranti venezuelani”, a fronte del vergognoso comportamento che l’Europa adotta verso altri migranti provenienti dal sud globale: prima si affamano i popoli e li si priva delle risorse, obbligandoli a scappare, poi li si caccia via dalla “fortezza Europa”. Prima si blocca lo sviluppo di un popolo che, come il Venezuela, con Chávez aveva raggiunto nella metà del tempo gli Obiettivi del millennio decisi dalla Fao; prima si convincono le persone che nei paesi capitalisti troveranno l’eldorado, poi si accusa il governo socialista di essere all’origine dell’”esodo” dei propri cittadini. E quando un uomo buono come Alex Saab, che non aveva bisogno di denaro, e avrebbe potuto voltare la testa dall’altra parte, decide di mettere in gioco tutto per aiutare il popolo venezuelano a rompere l’assedio delle “sanzioni”, lo si sequestra e lo si mette in galera, facendone un ostaggio e un monito. È allora importante, dire un no deciso a tutto questo, dimostrando, ogni giorno, da che parte della barricata ci si vuole situare.

dicembre 26, 2023

Suriano: stanno rimpatriando in Ucraina i minori accolti da noi. Vogliono forse mandarli al fronte?

Pubblicato su Pressenza il 20.09.23 

(Foto di Unione Popolare)

Simona Suriano, Unione Popolare, ex deputata della scorsa legislatura si sta occupando degli strani rimpatri di minori da Catania in Ucraina.

A Catania la tutrice per i rifugiati ucraini chiede il rimpatrio per i minori. Ci spieghi questo fenomeno?

Da quello che abbiamo appreso da articoli di stampa e parlando con alcuni avvocati che si stanno occupando del caso è emerso che i giovani minorenni che sono stati portati e accolti in Italia a seguito dello scoppio del conflitto russo ucraino e poi affidati a delle famiglie italiane, ora  ne viene richiesto il rimpatrio da parte della tutrice nominata dal consolato ucraino senza delle motivazioni ben chiare e specifiche. Questo ha destato perplessità e il timore che questi bambini, ritornando in patria, possono vivere condizioni di stenti o addirittura che quelli vicini alla maggiore età possano essere arruolati. Formalmente viene detto che in quelle zone non c’è conflitto e quindi questi bambini sarebbero al sicuro ma sappiamo che comunque in generale non è così. L’Ucraina è un paese in guerra e posto che non in tutte le zone c’è la guerra abbiamo verificato che in alcune zone dove questi bambini dovrebbero essere trasferiti vi sono stati dei bombardamenti. Il ricongiungimento con i familiari non è possibile e quindi non non si capiscono le reali motivazioni di questa scelta. Per tre bambini le famiglie affidatarie italiane hanno chiesto al giudice la sospensione del provvedimento. Per gli altri ancora non si è provveduto al rimpatrio ma i tempi sono stretti.

Ti risulta succeda da altre parti?

Da quel che mi risulta sono anche altre province che sono state coinvolte, in Lombardia per esempio Bergamo, quindi non è un fenomeno solo catanese ma riguarda tutta l’Italia, che ha accolto in via eccezionale e straordinaria profughi scappati dalla guerra e che ora invece non riusciamo a trattenere in Italia.

Cosa stai facendo tu e Unione Popolare a questo proposito?

Noi come Unione Popolare stiamo monitorando la situazione. Io a Catania, con appunto alcuni avvocati che si stanno occupando del caso  stiamo cercando di capire come poter evitare il rimpatrio di questi minorenni e garantirne le migliori condizioni di vita.

dicembre 26, 2023

Accorinti: dietro a No Ponte ci sono 1.000 sì

Pubblicato su Pressenza il 19.08.23 

(Foto di No Ponte)

Renato Accorinti è da sempre uno dei leader della battaglia contro il Ponte sullo Stretto. Gli abbiamo fatto qualche domanda per approfondire tutta la vicenda.

Tu sei uno dei precursori delle azioni ‘No Ponte’. Puoi raccontare come è cominciata questa storia?

La storia della lotta contro il ponte nasce nel momento in cui Berlusconi comincia a far capire che fa sul serio e ovviamente Berlusconi lo abbiamo conosciuto tutti: molto bravo a toccare la pancia delle persone poco informate; allora gli dici che il ponte porterà lavoro, che il ponte ce lo chiede l’Europa… Così Berlusconi ha cominciato a sperperare, attraverso la Società Stretto di Messina, centinaia di milioni di euro per un progetto di massima con centinaia di criticità.

Allora abbiamo messo su l’organizzazione per cercare di contrastare questo progetto costosissimo, inutile e devastante. Messina è la tredicesima città d’Italia, la punta estrema della Sicilia si chiama capo Peloro, che tra l’altro vuol dire luogo straordinario. Ed è un luogo veramente straordinario sotto tanti punti di vista. A Capo Peloro c’è un traliccio che era di proprietà dell’ENEL che è alto 224 metri, sembra una Torre Eiffel e dall’altro lato in Calabria c’è n’è uno simile. Serviva per far passare l’elettricità, ora è un simbolo della città, viene identificato col nome di Pilone ed è il luogo più frequentato per andare al mare. Il 24 giugno 2002 sono salito su e sono rimasto a 224 metri sospeso per più di un giorno con lo striscione No ponte. Devo dire che ha avuto una risonanza straordinaria. Allora non c’erano i social. E il giornale locale, La Gazzetta del Sud, il cui il direttore era anche presidente onorario della società Stretto di Messina, è stato dunque un giornale che per 50 anni ha fatto propaganda solo a favore del Ponte.

Sono rimasto lassù per più di un giorno, ho scattato molte fotografie. Data la bellezza del paesaggio con quelle foto abbiamo fatto un calendario contro il ponte, mettendo l’informazione delle nostre motivazioni. L’ho presentata a Roma in sala stampa in parlamento con Nichi Vendola con cui stringemmo un’amicizia forte e meravigliosa che dura tutt’oggi. Da lì poi è partito il movimento. Da lì abbiamo fatto una campagna di informazione nelle strade, in tutti i quartieri, nelle scuole, nei posti di lavoro . Questo è un esempio di come si dovrebbe fare politica partendo dal basso; noi che eravamo senza mezzi, senza soldi e con il quotidiano unico che parlava solo del ponte, abbiamo lavorato tantissimo e molti cittadini hanno potuto comprendere e cambiare idea. E così siamo stati talmente convincenti che nella manifestazione del 6 gennaio 2006 siamo scesi in piazza oltre 20.000 persone, di fatto la manifestazione più imponente della storia della città di Messina. E questo è un gran successo politico. Poi la questione ponte piano piano è scemata e col Governo Monti è stata definitivamente bloccata, purtroppo nel frattempo si erano sbranati 900 milioni di euro di tutti i contribuenti italiani. Oggi ritorna Salvini sull’argomento ponte dopo una pausa di parecchi anni. Per Salvini, che è un uomo senza idee e che vive di propaganda, l’argomento ponte è perfetto perché con gli slogan riesce a parlare a quelle persone che non hanno informazione e a illuderli che il ponte è la soluzione a tutti i problemi. Intanto mette subito 400 milioni di euro solo per iniziare e pensa di dover trovare altri 15 miliardi per finire, soldi che non esistono.

Insomma, questo è un po’ l’inizio di questa storia e ora la stiamo riprendendo perché continuano a sperperare il denaro della collettività. Stiamo cercando di far capire bene tutte le motivazioni, perché non serve quest’opera devastante, inutile e costosissima.

Una campagna popolare e dal basso un po’ come la tua lista ‘cambiamo Messina dal basso’. E’ questo un elemento vincente?

Ma certo che è vincente, è vincente anche nel concetto fondamentale, la politica deve nascere dal basso, con il coinvolgimento di tutti i cittadini. Per cambiare veramente una mentalità e una cultura bisogna lavorare con la gente, tutti i giorni, in tutti i quartieri, in ogni angolo delle città, avere 1000 punti dove si può dibattere e parlare. I partiti dovrebbero ritornare a fare questo invece hanno chiuso tutte le sedi e le elezioni le fanno soltanto con quattro cartelloni, quattro facce stampate dietro le vetrine di negozi o attaccate ai muri. C’è un distacco incredibile con la popolazione, con le persone . Perdono il contatto con la realtà e credono di avere la verità. La politica è la cosa più nobile che può fare l’essere umano. E’ l’interessarsi al bene collettivo; ne devi discutere con le persone, devi parlare, devi dibattere. È un lavoro faticoso. Democrazia è parlare e stare con le persone: è bello e le sorprese ci sono ogni momento. I partiti hanno perso il senso della politica e si lamentano perché oltre il 50% non va più a votare.

Il cambiamento nasce solo dal basso. Nel 2013 con i colori della pace e lo slogan “cambiamo Messina dal basso” ci siamo avviati a un’avventura che sembrava impossibile; non chiedevamo il voto, noi chiedevamo l’impegno ai cittadini, io in campagna elettorale dicevo, non chiedetemi dei favori che non ve ne farò mai. Sì ai diritti, no ai favoritismi, niente clientelismo. E’ stata una campagna elettorale piena di gioia in mezzo alle persone e ha portato a una vittoria che a Messina non era assolutamente pensabile. Messina è una città controllata da massonerie mafie e poteri forti dell’alta borghesia.

Sembrava una lotta conclusa e invece la partita è di nuovo aperta: a tuo avviso quali sono i poteri che spingono per un’opera del genere e che, evidentemente, non si erano arresi?

Le partite di questo genere sono sempre potenzialmente aperte perché le industrie, i macinasoldi dello Stato, sono lì come degli avvoltoi. Tu pensa a Ciucci. È ritornato di nuovo, è stato richiamato. Le grandi industrie che continuano a lavorare incessantemente per fare Grandi Opere, fare miliardi anche se devono devastare luoghi che sono patrimonio dell’Umanità. Sarebbero capaci di fare uno svincolo dentro San Pietro o al Colosseo. Non hanno limiti,non hanno un’etica. Ecco perché dobbiamo alzare il livello e dire che dobbiamo essere i custodi del creato, proprio come dice Francesco e come dicono tante altre persone meravigliose nel mondo. E lo stretto è un patrimonio inestimabile di bellezza, di biodiversità, di unicità che non può essere toccato come Piazza S. Pietro, il Colosseo e il Teatro Greco di Taormina. Come dice il costituzionalista messinese Michele Ainis il ponte va contro la Costituzione nel suo articolo 9 che è per la tutela del paesaggio.

Già lo hai detto in parte, ma ribadiamo: perché siete contro il ponte e quali sono le vostre proposte?

Ci vuole uno slogan. Dire no al ponte già è chiaro tutto. Il no al ponte è una sola parola, ma dietro ci sono 1000 sì. I mille sì sono gli argomenti e le proposte che abbiamo. La polemica che fanno loro, che dicono che noi siamo quelli dei no è veramente di un ridicolo incredibile. Lo potremmo dire anche noi per loro, quelli dei no alle infrastrutture per il Sud, quelli dei no al lavoro per il Sud, quelli… potrei non finire più. Dopodiché, entriamo seriamente nell’argomento: intanto il ponte è una delle opere più inutili, costose e devastanti della storia italiana. La cifra negli anni è continuata a crescere vertiginosamente partendo dai 2, 3, 4, 5 miliardi dell’inizio, fino ai 15 di adesso. Il progetto prevede un ponte sospeso a unica campata di km 3 e 300 metri, circa il doppio del più grande mai fatto al mondo, dove passano 6 corsie per il gommato più due d’emergenza più due linee ferrate. Larghezza 64 m, i pilastri sono quasi 400 m. di altezza. Il ponte è una cattedrale nel deserto trasportistico di tutto il sud, “basta con le opere faraoniche” ha detto Mattarella.

In più quest’opera gigantesca si vuol fare sopra la faglia più pericolosa del mediterraneo dove purtroppo ogni 100-150 anni si verificano terremoti catastrofici. Quello del 1908 (terremoto e maremoto) ha raso al suolo Messina e Reggio Calabria uccidendo circa 100.000 persone. Dicono che il ponte può resistere a un sisma di 7,1 della scala Richter, voglio ricordare che meno di un anno fa nella vicina Turchia c’è stato un terremoto di 7,9 della scala Richter. Il buon senso porterebbe a dire che con i soldi della collettività ci si dovrebbe impegnare per le vere priorità del sud: ferrovie con doppi binari, in Sicilia è quasi tutto a binario unico, oltre il 30, 40% è a gasolio, con tempi di percorrenza inaccettabili. Abbiamo bisogno di strade, autostrade, porti, porti commerciali, gli aereoporti collegati con le ferrovie e aumentare le autostrade del mare che sono il modo migliore per trasportare le merci bypassando l’intero percorso autostradale; le autostrade del mare sono il modo migliore di trasportare la merce in modo meno costoso, più sicuro e meno impattante.

Un’altra cosa importante è la messa in sicurezza del territorio. Quando arriva la botta d’acqua forte l’Italia crolla perché è una terra molto fragile. I costi della prevenzione sono molto più bassi di quelli della ricostruzione.

A proposito dello Stretto, che è un luogo che non si può violentare, da sindaco avevo istituito una commissione fatta da vari studiosi per cominciare l’iter per far dichiarare all’Unesco lo Stretto Patrimonio dell’Umanità ma il lavoro è molto lungo, purtroppo ci vogliono ancora molti anni. Lo Stretto è un luogo di biodiversità unica, lo studiano da secoli ricercatori di tutto il mondo. C’è la storia, la mitologia, la bellezza, c’è il passaggio degli uccelli migratori. L’Europa ha multato l’Italia sulla questione ponte perché andava contro dei regolamenti molto chiari. Lo Stretto è uno dei tre canali dove le gli uccelli migratori passano dall’Africa al Nord Europa e viceversa, sono canali protetti. Lo stretto è una ZPS, Zona a Protezione Speciale.

Ora sto parlando con tutti, con le forze politiche di opposizione non perché questa sia una battaglia di parte ma affinché tutti possano aiutare a tutti i livelli; che i partiti mettano a disposizione i loro uffici legali, serve una battaglia complessiva dal basso e in Parlamento.

dicembre 16, 2023

Giampiero Monaca: la repressione non ferma il progetto Bimbisvegli

Pubblicato su Pressenza il 13.07.23 

Pressenza ha seguito a lungo il percorso didattico nonviolento di Giampiero Monaca, creatore del sistema didattico “Bimbisvegli” e la sua protesta nonviolenta. Ora gli è arrivata una condanna per interruzione di pubblico servizio per quella protesta. Ne parliamo con lui ed esprimiamo solidarietà in una vicenda insensata e un precedente pericoloso di attentato alla libertà di insegnamento. Ma al tempo stesso con Giampiero rilanciamo le sue idee e proposte di un nuovo modo di fare scuola.

Giampiero, puoi fare un riassunto degli ultimi eventi?

Quando, nel 2007, ho iniziato a lavorare nel Quinto Circolo di Asti ero stato assegnato alla scuola Rio Crosio, parte della Direzione Didattica Quinto Circolo dove l’approccio didattico Bimbisvegli, andato via via definendosi grazie anche alla sinergia con alcune colleghe, non era stato molto gradito da alcuni insegnanti, in particolare e successivamente anche da alcuni dirigenti, mentre era stato molto apprezzato dalle famiglie. Così nel 2018 ho chiesto il trasferimento alla scuola primaria Piero Donna di Serravalle d’Asti, sempre parte del Quinto Circolo didattico. In questa scuola ho insegnato per 4 anni e, grazie a questo progetto, ho fatto crescere il numero degli studenti da 21 a 63 con il sostegno dalle famiglie, disposte a percorrere diversi chilometri per portare i loro figli da Asti a Serravalle proprio per la bontà del metodo applicato.

Inspiegabilmente, lo scorso settembre, al momento di essere riassegnato a una nuova classe sono stato trasferito da Serravalle alla stessa scuola di Asti in cui ero stato in precedenza: in tutta coscienza, non mi sono sentito di poter svolgere un lavoro sereno in quell’ambiente, abbandonando la comunità educante costruita con impegno, sostituendola con una nuova in ambiente plausibilmente molto poco accogliente. Ho scritto una lettera alle famiglie e ai bambini della nuova classe prima, per spiegare le motivazioni e al tempo stesso per chiedere alla Dirigenza di riconsiderare questa soluzione.

Non ottenendo nulla ho spostato la mia protesta rimanendo un mese, tra novembre e dicembre 2022, seduto davanti alla sede del MIUR a Roma, ma anche a Roma nessuno si è degnato di ascoltarmi. Anzi, per tutta risposta mi hanno licenziato e sono stato segnalato all’autorità giudiziaria dal dirigente reggente per interruzione di pubblico servizio. Questo si è concluso qualche giorno fa con la condanna a un mese e quaranta giorni di reclusione, tramutata in una pena pecuniaria di 1.500 euro.

Come ti senti dopo questa vicenda?

Un giorno Alby, uno dei miei alunni, mentre stavamo incarnando e rivivendo l’odiosa insensatezza dell’espulsione degli ebrei dalla scuola italiana, mi chiese: “Ma se tu fossi stato maestro nel 1938 e questa circolare fosse arrivata a te, TU, cosa avresti fatto?”. Io mi sentii molto in crisi, e glielo dissi, perché è tremendamente facile essere contro la tirannide, quando per le strade non girano manganelli e olio di ricino. Gli dissi: “Spero che avrei avuto il coraggio di dire ‘No. Io a questa porcata non ci sto!’”.

Quando poi, dopo anni di grandi difficoltà e conflitti, il dirigente mi ha ordinato di trasferirmi dalla scuola di Serravalle (che insieme a colleghe, genitori, volontari e alunni avevamo fatto rifiorire), con l’ unico risultato di demolire definitivamente il progetto Bimbisvegli, ho rifiutato.

Se avessi accettato avrei salvato carriera e stipendio, lasciando quelle classi di “piccoli ebrei” che stavo allevando (si è sempre rom o gay o negro o ebreo o anarchico o eretico per certi arroganti o servi), così gli ho detto signornò, che non riconoscevo la sua autorità, dato che lui mi stava imponendo qualcosa che mi pareva in coscienza lesivo per il benessere dei bimbi, ma anche per il mio. Decisi perciò che mi sarei avvalso del diritto alla disobbedienza civile e alla diserzione, con le conseguenze del caso che sono oggi sotto gli occhi di tutti.

Si nota una decadenza della scuola pubblica. Cosa pensi della situazione?

Non voglio fare il vecchio trombone che dice “Ai miei tempi si stava meglio”, perché non è così; si nota però un disfacimento e una fascistizzazione generale della nostra società. Credo nei corsi e ricorsi della storia, quindi non grido allo scandalo in sé ma, proprio come facevo con i miei alunni, dico che la strada sulla quale la nostra società si sta incamminando è quella di una forma sempre più reazionaria della gestione del potere, sia a livello alto e sia in quello dei piccoli poteri di quartiere, dei piccoli potentati, delle gestioni di faccende come la fila in macelleria, in un ufficio pubblico, la fornitura dei gessetti per le lavagne…

La scuola pubblica sta diventando sempre più ipertecnologica ed energivora; Bimbisvegli è una visione assolutamente ecologica, perché vuole agire didatticamente utilizzando i canali specifici dell’apprendimento del bambino. Possiamo usare anche la tecnologia, ma la lezione deve poter avvenire anche durante un blackout o un temporale, quindi no all’abbandono dei libri, no all’abbandono dei materiali tattili analogici. La colonna portante è, rimane e deve rimanere sempre la relazione umana tra adulto educante e bambino che cresce. E’ un rapporto che certamente ha una sua gerarchia, ha una sua verticalità, ma è costruito in modo tale che ciascuno abbia il suo spazio e sia chiara la funzione di ciascuno. Al massimo c’è uno che è avanti e uno indietro e chi è avanti sa che può e deve fermarsi ogni tanto ad aspettare chi è indietro, aprirgli la strada e chi è indietro sa che deve mettersi in cammino e darsi da fare.

Ho timore che la scuola pubblica prenda una deriva sempre più privatistica. Questo non mi pone in contrapposizione con alcune esperienze di ottima didattica gestita dalle famiglie stesse, che avocano il diritto-dovere di istruzione del proprio figlio, garantito dalla Costituzione; quello che temo è che si si andrà sempre di più riducendo il peso dello Stato inteso come comunità di persone che condividono una cultura, oltre che uno stesso luogo, che si riconoscono in valori comuni e che sono disposte anche a condividerli con persone che arrivano e che hanno altri valori e che possono tranquillamente essere integrate o diventare essi stessi parte della cultura. Io sono per il meticciato, per l’incontro, per l’integrazione e l’interculturalità a tutti i livelli. La paura è che si vada sempre di più verso uno Stato debole, o meglio fortissimo e durissimo con i deboli, ma debole nei servizi per la persona, dove al massimo possa essere erogato a pioggia un bonus per auto-organizzarsi: una elargizione di denaro per i cittadini che creerebbe un divario basato sul già esistente divario sociale e socio economico.

C’è una grande disillusione, che conduce al disimpegno: si depongono tutti gli ideali, tutti gli impegni. La scuola è piena di corsi, ma pochissimi in cui si parli del bambino; ci sono corsi ipertecnologici, di programmazione, di compilazione, di free climbing magari: così avremo un’insegnante palestrato che va a guadagnare i suoi quattro soldi durante l’orario di lavoro per poi pensare ai fatti propri senza la consapevolezza che il proprio benessere è al servizio dei suoi alunni.

Cosa pensi di fare, come continua il progetto Bimbisvegli?

E’ un tema su cui sto riflettendo ed è una riflessione che dura tuttora.

Non ho voluto sostituire i miei bambini con altri bambini di un’altra scuola perché ho voluto a tutti i costi dir loro che le relazioni non sono in vendita e che non ci si salva da soli; quello che noi avevamo costruito non poteva essere ucciso e ricostruito altrove, non l’ho voluto fare né nel pubblico (con un trasferimento sotto altro dirigente), né nel privato pur avendo ottimi rapporti con realtà di homeschooling.

In questo momento sto andando a fare un corso di formazione agli insegnanti di una scuola pubblica in Lombardia e la settimana successiva andrò invece nell’alto Piemonte con un gruppo di educatori e insegnanti di scuole parentali.

Non voglio fare un Bimbisvegli “bis” o un Bimbisvegli “contro”: qualunque cosa che nasca da una reazione, un trauma, uno stress non è vitale. E’ come comprarsi un cucciolo appena ti è morto il cane, ok, si può fare, ma non è il mio genere, così come non andrei a cercarmi una fidanzata appena mollato con la precedente: bisogna trovare quella giusta al momento giusto, che può essere subito come sei anni dopo.

Bimbisvegli potrebbe riprendere in qualche modo, ma non so se sarò io personalmente a farlo. Mi sto preoccupando e occupando della formazione di diversi educatori in diverse realtà scolastiche, mettendomi a disposizione; non vado là ad esportare Bimbisvegli e a controllare che ci sia un’ortodossia, vado a parlare di esperienza e delle linee ideali che mi hanno portato, che ci avevano portato, come un team collettivo, a sviluppare una certa azione pedagogica.

Ricordo ancora le lezioni del professor Rocco Quaglia a Psicologia dell’Età Evolutiva in cui ci diceva sempre: “Mi raccomando, io sono qui pagato per insegnare tutte le varie teorie della psicologia del bambino, però le teorie sono vestiti e quindi ciascuno di voi dopo averle studiate, perché dovete studiarle, poi sceglierà quelle che funzionano meglio per se stesso e per i propri futuri bambini”. Questo insegnamento mi è rimasto e mi rimarrà per sempre: non è importante che ci sia un altro Bimbisvegli, ma che ci siano tanti insegnanti che leggono criticamente Montessori, Don Milani, Mario Lodi, Kropotkin, Tolstoj, Baden Powell, che li leggano dentro e che poi creino la loro versione dei Bimbisvegli, se lo vogliono chiamare così. Se no lo chiamino Ciccio Bertolo, Giovani Marmotte, Coscienza Attiva…

I pilastri sono l’attenzione ai bisogni del bambino, alle sue capacità e ai suoi canali di apprendimento efficaci e contemporaneamente l’impegno ad aiutarsi. Bisogna accompagnarli ad aprire la strada per impegnarsi come cittadini giovani del mondo di oggi, a qualsiasi livello, ognuna e ciascuno a modo proprio. Questo è lo spirito di Bimbisvegli e attraverso la sensibilità specifica dell’insegnante diventerà poi la sua versione di questa pedagogia; questo equilibrio fra l’abbraccio e la spinta nella società, fra la coccola e l’impegno, fra il sostenere e il lanciare verso la vita.

dicembre 16, 2023

L’istruzione: terzo capitolo della trilogia sul Neoliberismo

Pubblicato su Pressenza il 15.06.23
I registi nel precedente lavoro (Foto di C’era una volta in Italia)

L’Istruzione pubblica è il terzo capitolo della trilogia sul neoliberismo, dopo PIIGS (sulle tragiche conseguenze dell’austerità nel welfare) e C’era una volta in Italia – Giacarta sta arrivando (sulla desertificazione della sanità pubblica). Ne parliamo con i registi e ideatori Federico Greco e Mirko Melchiorre. 

Intanto la scelta del crowdfunding, che diventa una sorta di azionariato popolare, ce la potete spiegare?

Si, abbiamo deciso di optare per questa soluzione perché i nostri film, per le tematiche che affrontano e per il fatto che siamo una piccola realtà produttiva, difficilmente riescono a ottenere finanziamenti pubblici. La raccolta fondi dal basso è una soluzione che adottammo già con il nostro primo documentario PIIGS. All’epoca fu utile per finalizzare il film e ci permise di chiudere la post produzione. Questa volta proviamo a fare il percorso inverso e i primi finanziamenti li utilizzeremo per iniziare la produzione. Purtroppo la prima fase della campagna crowdfunding è terminata pochi giorni fa e non ha raggiunto l’obiettivo che ci eravamo prefissati, quindi a breve proveremo a partire con una nuova campagna. Spesso le persone non hanno idea dei costi che ci sono e di quanto possa costare produrre un film; purtroppo al momento con quello che abbiamo ricavato non riusciamo a partire con le riprese.

Welfare, sanità istruzione sono i cardini di una società democratica, ma sembra che il capitalismo li veda come fonte di buoni affari. Sono questi a vostro avviso i temi cruciali per un cambiamento sociale radicale?

Si, dobbiamo ripartire da questi 3 pilastri: Welfare, Sanità e Istruzione. Non ci sono vie d’uscita per scardinare questo sistema neoliberista. Per questo, dopo Piigs e C’era una volta in Italia, sentiamo la necessità di chiudere questa Trilogia sul Neoliberismo con il terzo capitolo sull’Istruzione Pubblica.

Voi sottolineate sempre che volete fare film e non documentari: come si articola questa volta la vostra scelta?

No, in realtà è diverso, noi riteniamo di fare film documentari e non reportage. In Italia c’è molta confusione su cosa sia un documentario. Purtroppo negli anni è stato relegato a mero prodotto televisivo stile reportage giornalistico o reportage naturalistico. Ma è molto di più. Il reportage oggettivo, freddo a noi non interessa. Quando diciamo che facciamo film intendiamo che, all’interno della macro inchiesta giornalistica, raccontiamo anche delle storie di persone che lottano con tutte le loro forze per ribellarsi ad un sistema che li ha derubate dei loro diritti, dei sogni e spesso anche della loro dignità. Questa narrazione è il cuore dei nostri film, quella che incolla gli spettatori allo schermo, che commuove, che scuote e fa incazzare. Questo per noi è cinema.

Nei vostri tour la presenza del pubblico è sempre attiva: come contate questa volta di interfacciarvi con le realtà sociali legate alla tematica dell’istruzione?

Si, con i nostri film precedenti siamo sempre riusciti a coinvolgere persone, comitati e associazioni sensibili alle tematiche che affrontavamo. Queste realtà sono poi diventate il motore della distribuzione del film, perché poi si sono attivate su tutti i territori nazionali per organizzare proiezioni e dibattiti. Ci auguriamo di replicare la formula anche con questo nuovo film.

L’apporto di questi attivisti è fondamentale anche in fase di produzione. Già in fase di ricerca è importante entrare in contatto con realtà che quotidianamente si battono sul territorio e che vivono sulla loro pelle le criticità del sistema. Nei prossimi giorni inizieremo una serie di incontri con diverse associazioni, professori e studenti per ascoltare storie e testimonianze.

Per noi questa è la fase più importante e delicata del lavoro. E’ qui che si mettono le fondamenta del film.